Omaggio a Giorgio Albertazzi

Ripubblicazione dell’Intervista di Bianca Maria Simeoni

(Estratto dal “Il Giornale dei Poeti”)

“Artista è colui che è dentro il meccanismo della natura; è un privilegiato che trova porte aperte dove gli altri trovano muri. Egli vede al di là del muro. Che poi si dia, secondo l’epoca e i modi del tempo, degli atteggiamenti diversi, di filosofia del vivere, come la malinconia, il pessimismo, lo sturm und drang, sono tutte cose che vengono dopo l’atto creativo”.

La pensa così Giorgio Albertazzi che, nell’atmosfera raccolta e ovattata della sua abitazione-studio, mi racconta in forma intrigante un avvincente percorso umano e teatrale non parco di sorprese, ironia e profonde riflessioni, attraverso un mosaico di impressioni ed emozioni. Il Maestro parla e si sente il fuoco che agisce dentro di lui, mentre dalle pieghe del suo volto traspaiono saggezza, curiosità traboccante e attesa di qualcosa che arrivi planando tutt’a un tratto…

Gli chiedo: “Maestro, si innamora prima dell’opera da rappresentare oppure del messaggio che lei vuole trasmettere”?
G.A.:- Sarò sorprendente, ma non mi sembra di avere nessun messaggio da trasmettere. Io vivo secondo quello che mi dicono gli altri, specialmente le donne. Se una signora mi dà un’indicazione, un punto di vista per poter realizzare qualcosa, sono pronto ad accoglierlo perché non ho nessun sogno nel cassetto… Però vorrei dire una cosa importante: aspettare che qualcuno ti suggerisca qualcosa, non mi sembra un fatto casuale. Credo in un significato esoterico della proposta.

B.M.S.:- La celebrità di Giorgio Albertazzi è andata via via crescendo attraverso una serie di successi, e ha avuto la consacrazione ufficiale con spettacoli indimenticabili che hanno segnato la storia del teatro nel nostro Paese: basti pensare all’Universo Shakespeariano da lui interpretato. Ma come nasce Albertazzi attore?
G.A.:- “Io non mi considero un attore nel senso stretto del termine, cioè uno che dice parole di altri e anima cose di altri. Sono nato così. A Firenze. Quando mi riunivo con i miei amici in una cantina davanti a una conca piena d’acqua nella quale scioglievo del “turchinetto” – che era l’ “Omo” per lavare la biancheria – e l’acqua diventava azzurra ed iniziavo a raccontare cose assurde. Ad esempio che ero stato in Mesopotamia, che avevo dato la caccia agli squali. I miei amici sapevano che non mi ero mai spostato da lì, ma stavano ad ascoltarmi senza chiedere spiegazioni. Era il gioco del teatro, era la finzione che rendeva tutto vero. Così sono nato come attore, proprio da lì ho cominciato”

B.M.S.:- Il teatro può essere arte? Cosa rappresenta per lei il palcoscenico?
G.A.:- Il teatro non è arte per definizione, però può anche esserlo. Il palcoscenico per me è libertà! È libertà (E qui il tono della voce di Giorgio Albertazzi diventa indefinito, quasi etereo. Sa catalizzare l’attenzione: mi viene da pensare alle ballerine di Degas che non si appropriano della tela ma si introducono nel mondo… n.d.r.). Io sono molto meno libero durante tutta la giornata, rispetto a quando sono sulla scena. Improvvisamente, lì sopra tutto scompare, anche quella specie di meccanismo del quotidiano che spesso ci imprigiona in una sorta di “preoccupazioni”.

B.M.S.:- Lei, oltre ad essere un grande attore e regista, è un pensatore del nostro tempo. Ed è appunto riferendomi a questa nostra epoca che le chiedo: tutti sappiamo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma è un’utopia che si riesca a sapere ciò che siamo, ciò che vogliamo?
G.A.:- No, non è un’utopia, però è la cosa più difficile. Mi sembra che conoscere se stessi significhi anche sapere quello che vogliamo, oltre a ciò che siamo. Alcuni sostengono che, addirittura, sarebbe meglio non saperlo. La vita si sviluppa su se stessa a sinusoide, in maniera imprevedibile: a volte un incontro casuale, improvvisamente, diventa basilare per la nostra vita. Sostengo – non so con quanta prova scientifica, forse nessuna – che noi vediamo con lo sguardo interiore delle immagini che si affollano continuamente, dopo di che cerchiamo di decifrarle, e decifrandole pensiamo. Ed è come se ci fosse una preminenza dell’immagine. Nel mondo di oggi quasi sicuramente è così. Siamo circondati dalle immagini, ma non soltanto da quelle che vediamo alla televisione o al cinema, penso a quelle interiori: c’è un immaginare che è come per i poeti il suono, la sonorità, c’è prima il suono e poi la parola dentro il suono che diventa verso.

B.M.S.:- Secondo Albert Camus, “Il contrario della reazione non è la rivoluzione, ma la creazione. Il mondo è in un incessante stato di reazione e, quindi, corre il pericolo della rivoluzione”: Secondo lei si può reagire all’inerzia, al grigiore del conformismo, alla massificazione? Quali armi hanno l’artista, il poeta, lo scrittore?
G.A.:- Hanno l’istinto. Credo che l’arte sia istinto, non elaborazione, informazione, cultura, non analisi – vengono tutte dopo, queste cose -. Una volta ho chiesto a Manzù: “Maestro, ma come si fa a riconoscere uno scultore”? E lui mi ha risposto: “Se gli dai della creta e, manipolandola, riesce a far venir fuori qualcosa, hai riconosciuto uno scultore”. Questo comprova ciò che sostengo, cioè che l’arte è istinto. L’interpretazione viene dopo. A volte, infatti, è quasi ridicolo ascoltare i pittori che parlano dei loro quadri: sono imbevuti di critica e di analisi che hanno sentito da altri, e dicono, ad esempio, di aver voluto rappresentare il punto di sutura tra il pensiero e l’azione, poi magari il quadro è venuto in quel modo perché al pittore piaceva il rosso!

B.M.S.:- Sicuramente sono molti i momenti significativi della sua attività, ma c’è un momento particolare cha ha segnato in maniera indelebile la sua vita d’artista?
G.A.:- La mia vita d’artista – vorrei spiazzarla un po’ – è segnata dagli incontri con l’invenzione più straordinaria del Creatore (se ci fosse un Creatore), cioè la donna. Due cose sono straordinarie nella natura: la donna e i cavalli che, secondo me, si assomigliano per l’eleganza, le rotondità, la fierezza, l’orgoglio, il far finta di sottostare… Io adoro il cavallo, che è uno degli animali più antichi; lo amo talmente tanto che ne sono in soggezione, come davanti alla bellezza femminile. Se un cavallo mi fa una “smusata”, mi sembra un regalo pazzesco, come quando una donna mi fa un complimento: le sono grato perché mi sembra di non meritarlo. La Bellezza, ecco… Essa salverà il mondo, diceva Dostoevskij. Credo che abbiamo bisogno della Bellezza e di credere nel bello, perché il secolo passato ha mortificato la figura umana, nella pittura e in tutte le arti; ha tentato di camuffare l’uomo, di smembrarlo. Occorre, invece, rivalutarlo e metterlo al centro dell’esistente, ma non l’uomo politico, bensì quello naturale. Secondo me potrebbe essere questo il compito del millennio che verrà. Anche il teatro rispecchia, in qualche modo, questa necessità. Abbiamo assistito, nelle arti, all’avanguardia, postavanguardia, postavanguardia, transavanguardia, questi sono tutti modi per fuggire dal reale, dall’uomo, e per immaginarlo più virtuale che reale. È vero che c’è in contrasto interessante tra il virtuale e il reale. Pirandello, per esempio, dimostra come questo tema sia di fondo e lo affronta in alcune sue opere, come “Diana e la Tuda”, “I quaderni di Serafino Gubbio”. Viene naturale, a questo punto, chiedere a Giorgio Albertazzi quali sono gli autori che ha amato e che ama di più, che lo sostengono nel suo stato elettivo e mobilitano la libertà del suo essere “Dostoevskij, Dante e Shakespeare, che sono in testa a tutti”, risponde Albertazzi con assoluta determinazione. “Ezra Pound, il padre dell’analisi della poesia: ‘I canti pisani’ sono un grande capolavoro, poi la convergenza delle lingue, dei modi di dire, dei dialetti, delle invenzioni, dei neologismi, insomma, Pound, un genio! Ci sono, poi, due saggi veramente illuminanti di Thomas Stearn Eliot, uno su Shakespeare e l’altro su Dante, ritenuto da Eliot ancora più universale di Shakespeare. Nessuno, però, ha analizzato la persona, la psicologia come Shakespeare, soprattutto quelle osservazioni minime che sono altamente poetiche: quando Cleopatra sta per armare Marc’Antonio che andrà alla battaglia che poi perderà, nessuno penserebbe che lui a un certo punto le dica: “Ma non è così, tesoro, non è questo il bottone, devi spostarlo”… Come si fa a pensare una cosa del genere? Grande Shakespeare! Si dice, infatti, che resiste a tutto, anche ai cattivi attori!”

B.M.S.:- Guai a colui che ha il potere di mettere sulla bocca dell’arte le parole necessarie e non lo fa. Ma, in realtà, chi è il Maestro?
Giorgio Albertazzi risponde a questa domanda citando Roland Barthes: “Egli ha detto una cosa formidabile, cioè che non si sentiva un corpo storico in mezzo ai ragazzi ai quali rivolgeva il discorso d’inaugurazione presso la Sorbona, ma si sentiva un corpo presente, e diceva che esistono almeno tre momenti della sapienza. Quando si comunica ciò che si sa, è questo il momento del professore, poi c’è il momento del comunicare con gli altri; infine, l’ultimo, in cui non si insegna e non si impara più, ma si sta lì inerti, e questo è il momento del “sale e della sapienza”. Indubbiamente c’è bisogno di Maestri, perché è da essi che derivano i protagonisti, e dai protagonisti gli eroi. Il teatro è virtuoso, credo che l’arte si proponga di essere virtuosa, di provocare, di interpretare la vita e la morte, nel gioco dei giorni che passano”.

B.M.S.:- Lei è stato direttore artistico del Teatro di Roma: crede che noi italiani, soprattutto i giovani, siamo sordi ai richiami della cultura e, peculiarmente, del teatro?
G.A.:- Credo che questo sia un momento di grande transizione che non riguarda soltanto il teatro e l’Italia, ma tutto il mondo, il Pianeta. Il millennio è arrivato con una violenza senza paragone: globalizzazione, antiglobalizzazione, terrorismo, è in atto anche una rivoluzione quasi biologica; stiamo entrando dentro i misteri più segreti, più riposti, come il genoma della vita – tema che io avevo impostato in qualche modo nel “Jekyll”, che è del 1970, -. In questa situazione una rivisitazione, una riscoperta dell’umano, oppure la fine. Secondo me, i giovani non sono poii così distratti, semplicemente hanno paura. E con cosa si difendono? Con il rumore, con la comunicazione attraverso mezzi artificiali di comunicazione, condizionati dal potere o dalle multinazionali. Quindi, per evitare di cadere nell’equivoco, bisogna cercare di ascoltare queste proteste, anche se indiscriminate, un po’ confuse, magari violente. Personalmente, condivido moltissimi dei presupposti dei no-global, spesso non condivido il metodo, oppure l’ingenuità di servire da pedana per forze puramente distruttive, Credo, come dice Heiner Müller, che è uno dei grandi analisti della nostra epoca, e soprattutto del teatro, che il teatro abbia un ruolo importantissimo in questo, ma deve essere un teatro di innovazione, non di pura tradizione, anche se la tradizione va rispettata perché è la trasmissione di un sapere. Nei nostri teatri, e anche nel cinema, non bisogna trasmettere delle cose scontate, tutto ben confezionato, tutto a posto, attori a posto, scene a posto, tutto questo non significa più niente: annoia, annoia, annoia. Bisogna lavorare per lasciare grandi spazi alla fantasia e all’innovazione. Dice Müller che “quando le discoteche taceranno, allora risentiremo il silenzio udibile del teatro”.

B.M.S.:- Le pubbliche istituzioni hanno tangibilmente a cuore il teatro e il cinema? Oppure le varie leggi e leggine sono soltanto un alibi per camuffare una latitanza endemica?
G.A.:- Le pubbliche istituzioni, per quanto riguarda l’Italia, se ne fregano totalmente. Credono che il loro lavoro sia dinamico e che il teatro sia staticità: è esattamente il contrario. Il loro movimento è un falso movimento e l’apparente immobilità delle arti è grande dinamicità perché è una dinamicità profonda. È dinamico il cervello se si muove, è dinamico il pensiero. Loro non hanno capito questo, non lo capiranno mai. Ma bisogna considerare che, una volta entrati nel vicolo cieco della politica, quello che interessa loro è il voto e l’accumulazione dei vantaggi; nel migliore dei modi, per il proprio gruppo politico, nel peggiore personale.

B.M.S.:- Al Teatro Argentina lei ha ospitato una manifestazione dedicata al magistrato-poeta Corrado Calabrò e in tante altre occasioni si è dedicato alla poesia…
G.A.:- Pensi che la mia formazione è avvenuta sulla poesia, non sul poetico, ma sui versi; la poesia è, infatti, il verso. La mia cultura è tutta lì. Non smetto mai di leggere i poeti perché, rileggendoli, li scopri. Ad esempio, leggendo Saffo si aprono delle immensità sui sentimenti umani, sull’amore, sulla morte. Recentemente ho tenuto un recital su Dante, ed ho sostenuto un discorso anomalo, non soltanto sul verso. Ci si chiede spesso: -Ma poi, chi era questo Dante? – Io l’ho trattato come un concittadino del mondo, che camminava rasente i muri, tutto impolverato, tanto che le donne di Ravenna dicevano: “Ma guarda Dante com’è affumicato! Per forza, va e viene dall’Inferno!”. Oltretutto, si presenta il problema della donna come donna schermo e di lui che ogni tanto sviene, anche nella Divina Commedia. Che non svenga perché non sa più cosa dire e, di conseguenza, cade a terra, “come corpo morto cade?” Il problema della donna schermo si acuisce quando Dante ne sceglie una seconda, con il risultato che Beatrice gli toglie il saluto. E qui ha ragione Borges che dice: “Beatrice per Dante è stata tutto, ma Dante per Beatrice niente, quasi niente, s’è inventato tutto”. Qualcosa, infatti, traspare nel 30° canto del Purgatorio, quando egli incontra Beatrice: prima non la riconosce, poi lei gli dice: “Dante!!!” (è la prima volta che nella Divina Commedia compare il suo nome). Poi lo tratta malissimo: “Che caspita ci fai qua?” Poveraccio, egli ha fatto tutto quel casino dell’Inferno per ascendere al Purgatorio! Ecco, questo Dante è molto interessante, non è un modo di rappresentarlo per abbassarne la virtù poetica, ma è un modo per sentirlo più umano, perché è talmente grande che altrimenti ti sfugge.
La Cantica più raffinata è certamente il Purgatorio, la più teatrale è l’Inferno, il Paradiso è inqualificabile. Andrebbe suonato”.

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